Rispondo con un lungo post a diversi commenti di Remo, di cui apprezzo la passione per la lingua italiana. Non condivido invece il suo allarmismo per il presunto disfacimento dell’italiano a causa del proliferare degli anglicismi.
Forestierismi insostituibili, utili e superflui
Tutte le lingue hanno sempre fatto uso di forestierismi, i cosiddetti prestiti. In italiano la distinzione classica è tra prestiti di necessità e di lusso ma Giovanni Adamo e Valeria Della Valle in Le parole del lessico italiano preferiscono invece una tripartizione:
- forestierismi insostituibili, ormai radicati nell’uso, soprattutto per la loro concisione, efficacia espressiva e adeguatezza nominativa, come computer;
- forestierismi utili, che ripropongono espressioni straniere alle quali i parlanti sembrano adeguarsi senza sforzo eccessivo, facilitando l’uso di formule denominative di circolazione internazionale, come email;
- forestierismi superflui, che si affiancano a espressioni italiane già in uso o facilmente ricavabili e sono mossi spesso dalla volontà di ostentare consuetudine con tendenze o conoscenze linguistiche straniere, come nel caso dell’inglese ticket, molto spesso abusato in luogo di ‘biglietto’ o ‘buono’.
Per Remo, però, “la distinzione tra anglicismo utile e gratuito è troppo labile: tutti gli anglicismi, se vogliamo, sono gratuiti nel momento del loro ingresso [nella lingua]”. Il mio punto di vista è alquanto diverso, come avevo cercato di spiegare in una risposta precedente, distinguendo tra l’uso degli anglicismi nel lessico comune e nel lessico specialistico, dove spesso possono risultare più utili di eventuali alternative italiane.
Lessico comune e concetti generici
Sono perplessa dall’uso alquanto disinvolto di anglicismi nel lessico comune per descrivere concetti generici (esempi qui e qui) perché penso che penalizzino la comunicazione. Credo che entrino in gioco una certa pigrizia da parte di chi comunica (soprattutto nei mass media), un certo snobismo o comunque sfoggio della propria presunta conoscenza dell’inglese e, in generale, anche una scarsa sensibilità per le capacità espressive della propria lingua.
Lessico specialistico e concetti specifici
Sono invece convinta che in molti linguaggi speciali (linguaggi tecnico-scientifici e settoriali) ci siano casi in cui i prestiti siano la scelta più efficace, grazie al valore monosemico, alla concisione e alla riconoscibilità “globale” del termine, che diventa così un internazionalismo (la cosiddetta mutua intelligibilità: in questo senso l’inglese ha il ruolo che aveva una volta il latino).
Non sono d’accordo con l’atteggiamento purista* che vorrebbe che anche i forestierismi arrivati dal lessico specialistico per descrivere concetti specifici vadano sostituiti comunque da soluzioni alternative “italiane” (ad es. nessun sostantivo che finisca in consonante, etimologia latina ecc.) perché in molti casi risulterebbero troppo generiche, opache, poco precise e soprattutto non condivise, quindi, paradossalmente, in questi contesti potrebbero essere le parole "autoctone" a penalizzare la comunicazione (cfr. le improbabili alternative per banner e browser qui).
Prestiti integrati e non integrati
Immagino che Remo ritenga inaccettabili parole come smartphone perché si tratta di prestiti non integrati, che non hanno subito un processo di assimilazione. Va però considerato che la sensibilità linguistica contemporanea fa preferire l’adozione degli anglicismi senza modifiche, anche grazie a una maggiore riconoscibilità delle parole inglesi, ed è il motivo per cui un eventuale prestito integrato come smartofono suonerebbe ridicolo: nessuno ha problemi a pronunciare /ˈzmartfon/ con consonante finale o l’insolita sequenza /rtf/, né tantomeno a scrivere ph.
Alternative ai forestierismi
Quando si introduce un nuovo concetto nato in un’altra lingua, oltre al prestito si può optare per un calco, ad es. intellifonino, una polirematica, ad es. telefono intelligente, oppure creare un neologismo ad hoc (la scelta meno frequente). Vanno comunque considerate le tendenze della propria lingua e del campo terminologico in cui si opera, ad es. in ambiti tecnici raramente hanno successo soluzioni dal sapore arcaizzante o molto lunghe o, come dicevo sopra, troppo generiche, opache o poco precise.
Coesistenza di termini diversi
Remo nota che, a differenza dell’italiano che prevede solo smartphone, in francese si potrebbe dire anche ordiphone e in spagnolo teléfono inteligente e trova che in italiano la mancanza di almeno un’alternativa a smartphone sia un campanello di allarme per la salute della lingua.
Da un punto di vista terminologico, relativo a un ambito specializzato e non al lessico comune, avere a disposizione più alternative per lo stesso concetto è uno svantaggio perché può penalizzare la comunicazione (anche se, nel tempo, le alternative tendono comunque a scomparire, cfr. Radiografia delle parole e relativi commenti). In questo senso, nel caso di smartphone la situazione italiana è preferibile a quella di altre lingue perché abbiamo un unico termine che identifica il particolare tipo di dispositivo, sia nella comunicazione formale che informale.
L’invasione degli anglicismi: reale o percepita?
Secondo Remo, “l’attuale avanzamento dei termini inglesi in italiano non ha eguali storici per grandezza e rapidità del fenomeno” e teme “la progressiva sostituzione del vocabolario originario con uno preso pari pari da un’altra lingua”, prospettando che “fra qualche decennio l’italiano (o quello che sarà, visto [che] chiamarlo italiano è sempre più difficile) non sarà altro che un dialetto dell’inglese”.
In tutte le generazioni e in tutte le principali lingue europee ci si è sempre lamentati dell’imbarbarimento della propria lingua rispetto al passato (cfr. Integralisti della lingua inglese e Grammatica, variabilità e norme interiorizzate) e anche per questo eviterei il pessimismo: se si fa attenzione a come parlano le persone in situazioni di vita quotidiana, si può notare che nella maggior parte dei casi la presenza di nuovi anglicismi è davvero ridotta.
I linguisti italiani, per primi, non mostrano particolari preoccupazioni per la presunta invasione degli anglicismi, come confermano vari interventi. Nel Portale Treccani, ad esempio si possono consultare un’intervista a Tullio De Mauro, «Gli anglicismi? No problem, my dear», uno studio riassunto da Silverio Novelli in Il bel Paese dove il weekend suona e, in particolare, i dati forniti da Giuseppe Antonelli in Fare i conti con gli anglicismi I – I dizionari dell’uso, da dove è tratta questa metafora:
L’odierna percezione del fenomeno dell’anglicismo potrebbe allora essere paragonata alla “temperatura percepita” di cui così spesso si parla nei telegiornali estivi. Come ci hanno spiegato i meteorologi, a una temperatura obiettiva (misurabile con il termometro) corrisponde – nelle calde giornate d’estate – una temperatura percepita più alta, perché condizionata dal notevole tasso di umidità. Quello che succede per gli anglicismi non è molto diverso: una presenza obiettiva contenuta in percentuali fisiologiche viene avvertita come una preoccupante invasione, perché amplificata dai mezzi di comunicazione di massa.
Concludo ringraziando Remo per gli spunti di discussione e mi auguro che continui a leggermi, sperando soprattutto di convincerlo che i produttori di software non hanno alcun “interesse che l’italiano si eroda” per ridurre i costi di localizzazione.
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Nuovi post in tema:
♦ Anglicismi: un piccolo esperimento (anglicismi nel quotidiano)
♦ Spending review e rispetto per l’interlocutore
♦ Ancora itanglese (abuso ed effettiva conoscenza dell’inglese)
♦ Anglicismi: criteri di condotta (alcuni requisiti per l’uso)
♦ Elenco di anglicismi istituzionali (una raccolta in espansione)
♦ Anglicismi, che passione!? (alcune distinzioni importanti)
Due miei articoli per il Portale Treccani:
♦ La narrativa di Obama non è in libreria: interferenze dell’inglese nella comunicazione
♦ Le comunicazioni istituzionali e il rischio dell’inglese farlocco.
* Alcuni passaggi dalla voce purismo del Dizionario di linguistica:
Si può parlare di purismo tutte le volte che ci si trova di fronte a un ideale linguistico basato su di un modello concepito come un repertorio chiuso e prestabilito. In genere l’ideale della perfezione viene identificato in modelli arcaici, proposti all’imitazione in quanto costituenti un corpus stilisticamente insuperabile; ogni elemento esterno che entra a turbare l’equilibrio del sistema è considerato un attentato alla purezza. Si ha insomma purismo quando, in un modo o nell’altro, si prestabilisce l’ideale della lingua, riconoscendone i canoni, fissandone le regole ed opponendosi all’ingresso di parole “barbare”, generalmente identificate nei forestierismi e nei neologismi. | |
Il purismo si è manifestato più volte nella storia del pensiero linguistico, fin dall’antichità classica […]. Il dibattito fu particolarmente vivace nel Settecento, quando nell’italiano entrarono molti termini e costrutti di origine francese. La reazione contro i francesismi portò a una rinnovata fortuna del purismo, che non solo si manifestò come opposizione esterofoba ai cosiddetti “barbarismi” (si temeva allora il pericolo dell’«infranciosamento» dell’italiano, così come oggi si lamenta talora l’eccesso degli anglismi). | |
[…] Una forma rozza di purismo è l’opposizione ai forestierismi, banditi durante il fascismo con circolari ufficiali del governo. Ancora oggi riaffiorano talora rigurgiti puristici nelle polemiche contro gli anglismi e contro la presunta “corruzione” del linguaggio contemporaneo. |
Stefano:
Onestamente, io sono allarmato. Ad esempio, io uso “computer” ma non lo trovo affatto “insostituibile”: d’accordo, “cervello elettronico” fa tanto fantascienza dei tempi eroici, ma “calcolatore” era in uso comune fino a tutti gli anni Settanta ed era in linea con quello che fanno spagnoli e francesi (anche se la traduzione letterale delle loro scelte lessicali sarebbe “ordinatore”). Già il fatto di considerarlo insostituibile è una mezza sconfitta. Comunque, basta assistere a una presentazione in un qualunque ufficio marketing per accorgersi di come, nel gergo aziendale, i forestierismi superflui siano all’ordine del giorno. Hanno “competitor” e non “concorrenti”. Assumono tramite “intervista” invece che con un “colloquio”. Procedono a un “assessment” invece che a una “valutazione”. E così via.
Saltando di palo in frasca, forse non considererei un forestierismo “autobus”. Il termine originale per riferirsi ai i mezzi di trasporto pubblico collettivo era “omnibus” (ancora vivo in portoghese). Si usava anche in italiano (e giustamente, essendo un termine latino). “Autobus” è solo l’innesto della radice di “automatico” sulla secona “metà” del termine, anche se la divisione è semanticamente impropria; e, a giudicare dai termini in uso prevalente nelle altre lingue, lo considererei un uso nostro.
Licia:
@Stefano, Adamo e Dalla Valle indicano autobus come prestito dal francese, una parola macedonia composta da auto(mobile) e (omni)bus. A sua volta omnibus ha un’etimologia interessante, come hai già indicato tu: “dal fr. omnibus, tratto dal lat. omnĭbus «per tutti» (dativo plur. di omnis «ogni»), anche con allusione al cognome, Omnès, del direttore della compagnia di trasporti che adottò tale mezzo” [Vocabolario Treccani].
La descrizione forestierismi insostituibili mi sembra adatta per le parole ormai entrate nell’uso comune e usabili in tutti i contesti perché sono la convenzione riconosciuta da tutti i parlanti. Recentemente ho sentito un intervento del linguista Michele Cortelazzo che diceva di aver valutato in poco più di un anno la possibilità di rivedere la stabilizzazione di un termine: passato questo periodo, “i giochi sono fatti”.
Eventuali alternative a prestiti ormai in uso da anni risultano quindi connotate, a seconda dei casi, come sorpassate, disusate, ironiche, scherzose, stravaganti, snob, originali a tutti i costi ecc. Non oso immaginare le reazioni dei saccenti addetti nel MediaWorld vicino a casa se un cliente chiedesse di comprare un elaboratore elettronico portatile (e nel caso di calcolatore, immagino gli verrebbero indicate delle calcolatrici)!
Invece per quel che riguarda il gergo aziendale, come dicevo in un altro commento sarei curiosa di sapere se i personaggi in questione parlano così anche quando vanno a trovare la mamma – secondo me no!
Luigi Muzii:
Segnalo due articoli al riguardo, di cui uno “riemerso” pochi giorni fa:
https://www.theguardian.com/theguardian/2012/may/21/archive-1971-language-french-english-common-market, dal Guardian del 21 maggio 1971
http://www.slate.com/articles/arts/the_good_word/2012/05/steven_pinker_on_the_false_fronts_in_the_language_wars_.html, di Steven Pinker per Slate
Il rinnovato interesse per la/e lingua/e non andrebbe sprecato in chiacchiere.
Licia:
@Luigi Muzii, grazie per i link. In italiano l’articolo di Pinker è stato ripreso ieri da Luca Sofri in Frustare il vento.
remo:
Lei considera smartphone solo come appartenente a ll”ambito specializzato”, io invece la considero già come parte del lessico quotidiano, essendo sulla bocca di tutti i parlanti indistintamente. Ed è per questo che trovo un impoverimento per l l’italiano il non avere una parola autoctona in grado di definirlo, come invece fanno correttamente le altre lingue almeno creando una concorrenza tra le lingue , invece di cedere il passo incessantemente all’inglese.
Così come non mi sembra rispondere al vero il fatto che i linguisti non mostrino segni di preoccupazione per gli anglicismi: il famoso saggio “Morbus anglicus” di Castellani è di più di trenta anni fa, e negli ultimi anni l’attenzione verso il fenomeno è aumentata; che poi a ciò non seguano appelli o proposte concrete, forse dipende tutto dal fatto che in Italia non siano mai perseguita serie politiche linguistiche (o meglio si tutelano all’inverosimile le minoranze linguistiche , ma non l’idioma nazionale), come invece fanno all’estero, o magari è la paura dei soliti paragoni sciocchi che saltano immancabilmente fuori rivangando fantasmi del ventennio in una perpetua “reductio ad mussolim” che è solo italiana.
Per finire, come ho già detto, ritengo che si debba considerare l’intera gamma delle situazioni comunicative che incontra il parlante nella quotidianità (compreso quindi il bombardamento di anglicismi che subisce dai media) e non solo alcune e magari quelle più rassicuranti, altrimenti è come voler valutare lo stato di salute di un corpo ignorando volutamente quelle parti che manifestano cancrena.
remo:
P.S. solo uno per rispondere all’insostituibilità dei termini di lungo corso: se solo da domani la pubblicità iniziasse a parlare di “telefoni intelligenti” o magari di “multifonini” (sottintendendo telefonino multimediale), nel giro di un mese tali nomi non sarebbero neanche più percepiti come strani o bizzarri, ma anzi probabilmente utilizzati perché “di moda”.
Licia:
@remo, grazie.
Mi sono dilungata molto nel post, però vorrei ribadire che parole come smartphone provengono da un ambito specializzato e non credo che avrebbe senso “ribattezzarle” quando entrano nel lessico comune, creando inutili alternative (vanno anche considerati gli aspetti pratici: dando un nuovo nome si renderebbero meno facilmente reperibili informazioni già disponibili sull’argomento).
Sicuramente le scelte terminologiche “a monte” andrebbero fatte tenendo conto che i termini potenzialmente possono diventare parole comuni ma, come ho cercato di spiegare in altri post, spesso intervengono fattori che costringono invece ad adottare soluzioni meno felici linguisticamente ma che sono già condivise da molti parlanti (anche qui vale il discorso delle informazioni già disponibili ecc.). E sono abbastanza scettica che si potrebbero ottenere risultati diversi con enti normativi o particolari politiche linguistiche, dubbi rafforzati dopo avere lavorato a stretto contatto con terminologi di paesi in cui la lingua è regolamentata a livello istituzionale.
Va anche detto che nelle altre lingue a volte la situazione è diversa da quello che può sembrare sulla carta, ad esempio i francesi dicono normalmente smartphone e in spagnolo, nel linguaggio comune, nessuno usa teléfono inteligente: la gente dice invece el iphone, la blackberry e così via.
Per quel che riguarda la pubblicità, è un suggerimento interessante, ma nella realtà dubito potrebbe succedere: nessuna azienda avrebbe interesse a proporre terminologia diversa da quella già sul mercato, a meno che, per differenziarsi dagli altri, non voglia creare un nuovo termine che venga associato esclusivamente al proprio prodotto (cfr. Scelte terminologiche: segnalibri e preferiti).
I punti di vista diversi sono sempre molto stimolanti, se possibile mi piacerebbe avere qualche riferimento più specifico di linguisti contemporanei che condividono le preoccupazioni di Castellani, che se non sbaglio è scomparso da qualche anno. Grazie ancora per i contributi.
Alain:
Segnalazione lampo per Repubblica che cerca la regina delle Wags (immagino un acronimo, ma l’articolo non lo spiega minimimamente) che ridefiniranno il mercato DEL fashion (al maschile) 🙂
http://d.repubblica.it/rubriche/people-gossip/2012/06/07/foto/wags_donne_calcio_dive-1074799/1/
Licia:
@Alain, grazie, fashion al posto di moda è un esempio perfetto dei forestierismi completamente inutili che anch’io non sopporto (nell’articolo ce ne sono anche altri, ad es. red carpet al posto di tappeto rosso). È anche la prima volta che vedo fashion usato come sostantivo e non come aggettivo.
E a proposito di Wags, mi domando se chi scrive dia per scontato che tutti sappiano già cosa vuol dire, il che sarebbe davvero soprendente vista la conoscenza di solito abbastanza superficiale dell’inglese in questo paese, ancora di meno della cultura britannica in tutte le sue sfaccettature. Va detto infatti che WAGs/Wags è un neologismo recente e molto specifico, noto essenzialmente a chi legge le cronache mondane. Fino a poco tempo fa era solo un acronimo (WAGs – Wives and Girlfriends, le tipicamente vistose e non molto intellettuali compagne dei calciatori britannici) e solo molto recentemente è apparsa la forma singolare wag (esempio abbastanza insolito di retroformazione del singolare).
Forse, come spesso succede nelle redazioni online, chi ha compilato l’articoletto si è limitato a tradurre qualcosa dall’inglese senza porsi troppi problemi di significato? Si potrebbe fare una segnalazione a Pazzo Per Repubblica…
aster:
remo postresti spiegare cosa vuol dire “reductio ad mussolim”? Mi sembra un forestierismo 😀
Lele:
Segnalo un italianismo (copyright .mau.) per Smartphone:
furbofono.
Carino, no? 😉
Licia:
😀
Licia:
Per chi è interessato all’argomento e a punti di vista diversi dal mio, ieri il Portale Treccani ha pubblicato L’italiano, lo spagnolo e gli anglicismi in cui Gabriel Valle riassume brevemente diversi pareri sugli anglicismi ed esprime quindi le sue preoccupazioni per quelle che ritiene possibili conseguenze sulla lingua italiana:
– creolizzazione (ma andrebbe specificato che l’uso di forestierismi in italiano non ha influenza rilevante su grammatica e sintassi, condizione necessaria per poter parlare di lingue creole)
– errata pronuncia delle parole straniere
– impoverimento del lessico
– incomprensibilità delle nuove parole per molti parlanti.
Valle suggerisce quindi un “Programma per la salvaguardia della lingua italiana” che abbrevia nell’acronimo Prosalini (e forse un nome alternativo sarebbe stato più efficace).
remo:
Se non è creolizzazione trovi lei un termine per definire la “progressiva sostituzione del lessico originale con quello di un’altra lingua”, comunque è un fenomeno che esiste, magari anche solo per l’italiano (lo chiameranno itanglazione, quando la nostra sarà una lingua composta da preposizioni e congiunzioni italiane, e sostantivi, aggettivi, verbi e avverbi inglesi).
Il Prosalini ricorda un po’ troppo il Kundalini
Elio:
@remo: ma non credi di stare esagerando?
Persino il termine grammar-nazi mi sembra riduttivo nei tuoi confronti… 🙂
P.S. E non mandarmi maledizioni varie: non conosco un termine equivalente in italiano!!! L’unica alternativa che mi viene in mente è talebano ma è una parola straniera anche quella, anche se finisce con la O!!!
Licia:
@remo, di creolizzazione abbiamo già discusso qui, dove avevo cercato di spiegare che è un fenomeno che implica la creazione di nuove strutture grammaticali, morfologiche e sintattiche che danno origine a una nuova lingua con tratti distintivi che di solito non sono presenti nelle lingue che l’hanno originata. Direi quindi che creolizzazione è un termine usato a sproposito per descrivere la presenza degli anglicismi in italiano: sono semplicemente neologismi, quindi parte del lessico, che non intaccano le strutture esistenti.
Per continuare questa discussione, credo sarebbe utile qualche dato più preciso (cfr. Antonelli) a supporto di questa presunta sostituzione del lessico, altrimenti rimangono solo impressioni personali (e in questo senso l’articolo di Valle non è affatto documentato).
.mau.:
(furbofono non è mio ma di m.fisk, http://nonsoabbastanza.blogspot.com/ )
@elio: talebano è un calco, direi.
.mau.:
di Uncleftish Beholding ne avevamo già parlato, vero?
Licia:
@.mau. non conoscevo Uncleftish Beholding, grazie per la segnalazione!
Per chi volesse saperne di più, si tratta di un testo di Poul Anderson in cui la teoria atomica viene descritta usando solamente parole di origine anglosassone (ed è quindi praticamente incomprensibile).
Qualche informazione in Wikipedia; qui l’intero testo: http://groups.google.com/group/alt.language.artificial/msg/69250bac6c7cbaff
Studiostorico:
Grazie per la citazione e per questo post interessantissimo (anche la discussione che suscita!).
Licia:
@Studiostorico, grazie a voi! Purtroppo non parlo francese ma è sicuramente interessante avere conferma dal vostro post e da En français à tout prix ? – Les anglicismes che gli anglicismi sono diffusi anche in Francia, paese in cui esiste una politica linguistica e che è spesso preso ad esempio dai puristi italiani come modello da imitare per sconfiggere il fenomeno dei forestierismi.
remo:
@licia. Ho detto, infatti, la chiami come vuole, poi usi un neologismo – magari un anglicismo – ma un processo di sostituzione lessicale è in atto.
Avevo letto anche quell’articolo da lei già segnalato, ma l’analisi è sempre fatta solo nella stesso ottica che lamentavo, cioè non prende in considerazione la lingua e gli anglicismi nel loro uso quotidiano, non ne è valuta il peso, l’impatto e soprattutto la diffusione realtà comunicativa. Si basa solo su un rapporto fra gli anglicismi e l’intero lemmario cosa che non ha tanto senso, e liquida sbrigativamente tutto il resto come un fenomeno percepito: e se fosse il termometro usato dai linguisti a essere mal calibrato?
@ Livia i cosiddetti “nazi-grammar” si fissano appunto sulla grammatica sul “*qual’è” per intenderci, io sto parlando invece di un di fenomeno ben diverso, un fenomeno che anche questo in queste pagine viene denunciato come malcostume, ma negato come problema; al che mi chiedo perché scandalizzarsi così tanto da denunciarlo se in fondo il problema non esiste.
remo:
PS è vero che il fenomeno è diffuso anche nelle altre lingue, ma come ho già evidenziato, nelle altre lingue il problema è sentito – benché inferiore a quello dell’italiano – e vi sono anche delle reazioni, degli anticorpi per intenderci; in italiano, invece, viene addirittura visto con favore, anzi favorito, mi si viene pure a dire che gli anticorpi creati dalle altre lingue addirittura nuocciono alla chiarezza comunicativa della stessa: si vede che solo l’italiano scoppia di salute.
Licia:
@remo, se non vedo dati specifici e misurabili non cambio idea, inutile cercare di convincermi in altri modi!!! 😉
Direi di concludere qui questo nostro scambio perché altrimenti continuiamo a ripetere sempre le stesse cose. Vorrei comunque suggerire a chi lo sta ancora seguendo di provare a prendere nota, per almeno una settimana, di tutti i forestierismi superflui sentiti in normali situazioni di vita quotidiana, ad es. conversazioni in famiglia o tra amici.
Sarei curiosa di sapere se altri confermano quanto sto osservando io: se si escludono gli esempi di lessico specialistico, si può notare una sostanziale differenza tra il numero di anglicismi “attivi” (quelli che usiamo effettivamente nelle produzioni orali spontanee) e di anglicismi “passivi” (quelli che ci limitiano a sentire/vedere, usati a sproposito dai media e che tanto infastidiscono anche me) e proprio per questo non credo che esista un problema di “sostituzione” del lessico comune. Per concludere, riprendo la citazione già fatta nel post a proposito dell’effettiva frequenza degli anglicismi nell’italiano contemporaneo: una presenza obiettiva contenuta in percentuali fisiologiche viene avvertita come una preoccupante invasione, perché amplificata dai mezzi di comunicazione di massa.
remo:
Fa bene a chiedere dati e piacerebbe averli pure a me, invece di semplici riassunti basati sui lemmari dei dizionari, ma è cosa che dovrebbero fare gli studiosi…
Proverò a fare il suo esperimento, ma mi spieghi come devo considerare questi due casi:
1) “spending review” (per il lavoro che faccio coi colleghi è un argomento che si tratta spesso) al posto dalla più banale “revisione della spesa” è da considerare superfluo o necessario?
2) l’amico che dice “aspetto che guardo sul mio smartphone” invece di “cellulare” solo perché vuole evidenziare che ha l’ultimo modello di telefonino, lo devo considerare superfluo o necessario?
Licia:
@remo, pensavo di essere stata sufficientemente esplicita in questo post, nei commenti agli altri post che l’hanno preceduto e in questi commenti. Temo di no… 🙁
Provo con un grafico:
Come dicevo nel post, per me è importante distinguere tra lessico comune e lessico specialistico. Escluderei quindi tutte le parole che sono nate in un ambito specialistico e da lì sono passate al lessico comune (frecce nere ➨), come appunto smartphone (solo in pochi contesti, peraltro molto generici, telefonino o cellulare ne sono davvero sinonimi).
Considererei anche l’aspetto diacronico, escludendo tutti i prestiti che sono ormai attestati in italiano da più di x anni e registrati dai dizionari (facciamo 10 anni?), quindi sono parole che fanno stabilmente parte del lessico italiano, indipendentemente dalla loro origine e aspetto, come ad es. mouse (1978), check-in (prima del 1974), sport (1829) ecc.
Mi concentrerei quindi sugli anglicismi entrati recentemente nel lessico comune direttamente dall’inglese (freccia rossa ➨) e per i quali esiste un’alternativa italiana, quindi sono del tutto superflui, come gli esempi in Una casa shabby al punto giusto: sono questi i casi in cui eventualmente si potrebbe parlare di “sostituzione del lessico”, ma solo se sono usati attivamente dai parlanti ed effettivamente scalzano le parole equivalenti italiane.
Come ho già detto qui, considererei inoltre solo le situazioni di vita quotidiana, dove le produzioni verbali sono più spontanee, e non lavorative in cui viene usata terminologia specialistica o intervengono altri fattori (ecco la mia risposta su spending review) o relative a testi prodotti dai mezzi di comunicazione.
La lingua è in continua evoluzione e ci sono sicuramente molte aree grigie in cui è difficile posizionare le parole, però spero di aver chiarito quali sono i miei criteri.
Davvero penso di non avere più nulla da aggiungere su questo argomento, anche per questioni di tempo, e mi auguro quindi che questa discussione non continui all’infinito… 🙂
Remo:
Ultimo commento e poi la pianto veramente, anche perché mi sa che qui le analisi vengono proposte solo per confermare la tesi di partenza (come dimostra anche la leggerezza con cui è stata riportata la citazione di Serianni, in realtà rivolta a ben altro fenomeno).
Con questi criteri praticamente i “forestierismi inutili” non esistono; perchè anche il ticket, annoverato dale tra gli inutili, non sarebbe più da considerar tale: da più di 10 anni nell’uso e in ambito specialistico.
Licia:
Su Wags (commento di Alain), un articolo del Portale Treccani: Wags, donne da diporto.
Licia:
Sugli anglicismi in francese e lo scarso successo dell’Académie française nel contrastarli si può leggere un articolo interessante in Oxford Dictionaries Blog, L’anglais, c’est super cool!, che mostra molti parallelismi con la situazione italiana.
Stefano:
Salve a tutti. Blog molto interessante. Per motivi di studio ho modo di approfondire costantemente due lingue a parer mio stupende: il tedesco e il polacco. Si tratta di due lingue estremamente conservative: ad esempio in Germania nessuno si sognerebbe di usare la parola ticket per indicare il biglietto (Fahrkarte) oppure un buono (Gutschein). Così come non sentireste mai da un polacco, anche se uomo d’affari, “location” (in polacco miejsce, cioè posto, luogo). Insomma è perfettamente inutile contrastare gli anglicismi dall’alto (che poi a risentirne è pure l’inglese, come ad esempio alcune espressioni usate in ambiente internazionale come “see you then”, calco chiaramente spagnolo) ma è bene far partire una campagna di sensibilizzazione dal basso. Dire insomma alla gente per strada che utilizzare un anglicismo (e per fortuna in italiano non è entrato nell’uso corrente “googlare”) non fa fighi. Dove esiste l’alternativa italiana, è meglio usarla. Costa tanta fatica dire “prova di autovalutazione” anziché “self assessment test”?
Licia:
Grazie Stefano, come probabilmente avrai visto, quello dei forestierismi superflui è uno dei miei argomenti preferiti :-).
Da quando ho suggerito Anglicismi: un piccolo esperimento cerco di fare ancora più attenzione a come parla la gente per la strada e finora ho avuto conferma che l’uso attivo nei discorsi di tutti i giorni in realtà è limitato –– a parte una categoria ben identificabile di milanesi, ad es. recentemente nei camerini di un negozio di abbigliamento mi sono trovata vicina a due tipe dall’aspetto “donne in carriera” che discutevano dell’impatto che avrebbe avuto il vestito che una delle due stava provando; approvando il consiglio ricevuto, quest’ultima se ne è uscita con un “lo sai che tu sei il mio benchmark”.
IBRIDI LINGUISTICI | Linda Liguori
[…] Intanto segnalo il ricchissimo articolo – e relativi commenti – di Licia Corbolante sul blog Terminologia Etc che parla proprio degli anglicismi e dei forestierismi […]