Il ruolo dei linguisti nelle leggi sull’italiano

immagine dal sito dell’Accademia della Crusca a illustrazione del tema del mese

Sul sito dell’Accademia della Crusca nelle settimane scorse è stata attiva una discussione sul tema Nuove leggi sull’italiano. Ma sono davvero “politica linguistica”?, in cui Claudio Marazzini aveva esaminato nei dettagli vari aspetti di due recenti iniziative legislative “linguistiche”: il disegno di legge 337 (Senato) per l’inserimento dell’italiano come lingua ufficiale nella Costituzione, in discussione dal 6 giugno, e la proposta di legge 734 (Camera) per la tutela e la promozione della lingua italiana, non ancora calendarizzata.

Ho partecipato anch’io alla discussione con un commento sul ruolo dei linguisti, finora non considerati in alcun modo dalla proposta di legge 734, come già evidenziato. Lo ripropongo anche qui perché mi piacerebbe sapere se anche altri condividono questo punto di vista (la discussione sul sito dell’AdC invece è stata monopolizzata da due individui che hanno sproloquiato di tutt’altro):

Vorrei riportare alcune parole di Luca Serianni in conclusione del convegno La lingua italiana e le lingue romanze di fronte agli anglicismi (Firenze 2015): “Uno dei compiti dei linguisti, a mio avviso, è quello di favorire la riflessione sulla lingua e sul suo significato anche identitario”. La frase mi è tornata in mente in chiusura di questo tema del mese, sorpresa che spunti di discussione così articolati e attuali non abbiano stimolato più linguisti a dare un loro contributo. Anche su altri spazi pubblici mi sarei aspettata interventi che invece non ho visto. Forse la partecipazione al dibattito pubblico di un numero così ridotto di esperti è un segnale che serve qualche riflessione anche sul ruolo dei linguisti come divulgatori e come formatori.

Penso ad esempio al preambolo della proposta di legge 734, che rivela conoscenze sulla lingua male informate. Stupisce che gli estensori del testo non abbiano consultato alcun linguista ma abbiano ritenuto sufficiente ricorrere, a quanto pare, alla voce itanglese di Wikipedia, dove si ritrovano le stesse informazioni ascientifiche come ad es. l’aumento del 773% degli anglicismi o il loro conteggio nei dizionari come indicatore dello stato di salute della lingua. Si nota molta superficialità anche nei commi dell’art. 7 che istituisce il Comitato per la tutela, la promozione e la valorizzazione della lingua italiana, addirittura non è prevista esplicitamente la partecipazione di linguisti per decisioni su questioni legate alla lingua!

Non mi pare che queste carenze siano state colte dai media, che invece si sono incentrati quasi esclusivamente sugli aspetti sanzionatori della proposta di legge. Non sono state rilevate le debolezze del testo e non è stato fatto alcun approfondimento linguistico, a parte alcune brevi interviste a linguisti conosciuti, che ho apprezzato molto. Utili e informativi anche alcuni interventi di linguisti sui social e altri canali, ma molto evidente anche il silenzio di tutti gli altri. Eppure sarebbe [stata] un’ottima occasione per fare divulgazione, proattivamente, ed evitare che questi spazi possano invece essere occupati da voci poco autorevoli ma molto motivate, che si servono della lingua per alimentare scontri ideologici o che per visibilità personale spingono narrazioni catastrofiste e complottiste sul futuro dell’italiano.

Concludo citando di nuovo Serianni: “La salute della lingua dipende, lo sappiamo bene, non da interventi esterni ma dai singoli parlanti (ossia da ciascuno di noi). Compete però ad alcuni di essi, per la posizione che occupano – ministro, direttore di un giornale cartaceo o televisivo, intellettuale che sia spesso ospitato in trasmissioni di grande successo ecc. – la responsabilità di un uso consapevole della lingua, rispettoso sia della sua storia, sia del diritto di ciascuno a riconoscersi appieno nelle parole che ascolta o legge negli interventi di chi opera in un àmbito pubblico”. Penso anche a Francesco Sabatini che in un’intervista recente ha ribadito che è un’illusione pensare di poter fare leggi contro l’invasione delle parole, e l’unico vero intervento efficace per la salute della lingua italiana è garantire che tutti abbiano la migliore istruzione possibile.

Mi auguro quindi che il dibattito aperto dagli interventi legislativi sull’italiano faccia giocare anche altri tipi di partite all’interno dell’università: un ruolo più attivo di divulgazione pubblica per un maggior numero di linguisti e più attenzione alla formazione dei futuri insegnanti, per un insegnamento dell’italiano che faccia acquisire una migliore consapevolezza linguistica – per tutti e quindi anche per i futuri legislatori, politici e comunicatori pubblici.

Avevo aggiunto anche un riferimento a Communicating Linguistics. Language, Community and Public Engagement, a cura di Hazel Price, Dan McIntyre, Routledge, 2023 (volume scaricabile gratuitamente).


Alcuni interventi di linguisti sulla proposta di legge 734:

Sarei curiosa di sapere se gli estensori della proposta di legge abbiano recepito le critiche e, nel caso, come intendano agire sul testo. Mi piacerebbe anche sapere se nella comunità accademica dei linguisti sia in corso qualche iniziativa, e di che tipo, in previsione di un’eventuale discussione del testo in parlamento. 


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5 commenti su “Il ruolo dei linguisti nelle leggi sull’italiano”

  1. Derdennia:

    cià! Volevo solo segnalarti che ultimamente ho sentito questo strano uso di quello che sembrava “flexare”, ma sembra cambiato:

    una ragazza molto giovane ha detto che tizio era “molto flexato” : questo modo, in cui diventa aggettivo, non sembra voler dire “sfoggia qualcosa” e simili.

    2023 … nordest.
    forse è solo di un gruppo di amici?

  2. Licia:

    @Derdennia grazie per il singolo esempio però non capisco il collegamento con l’argomento del post.

  3. John Dunn:

    Condivido totalmente il tuo punto di vista. Vorrei solo aggiungere che a mio parere i linguisti sono (o dovrebbero essere) in grado di dare risposte a diverse domande suggerite da queste iniziative.
    1. Quale altre leggi sulle lingue esistono in altri paesi e come funzionano (se funzionano)?
    2. Quali disegni di legge sono stati proposti in altri paesi, ma non addottati (e perché)?
    3. Cosa garantirebbero queste nuove leggi che non è garantito adesso?
    4. Quali sono i veri motivi dell’adozione di anglismi in italiano e in altre lingue? Le risposti date da non-linguisti (ma non solo) spesso sono riduttive.
    4a. In particolare, come si spiega l’ingente quantità di pseudo-anglismi in italiano e altre lingue europee?
    5. Quali sono i principali processi che interessano le lingue europee (incluso l’inglese) in questo periodo?
    6. Come si definisce ‘un anglismo superfluo’? (Una risposta a questa domanda potresti dare tu).
    7. Come si definisce un forestierismo? Non è mica semplice: per esempio, un pseudo-anglismo, coniato in italiano, deve essere considerato un forestierismo (e perché)?

    Io vengo da un’altra tradizione: l’inglese è una lingua perfettamente comunista, nel senso che è la proprietà collettiva di tutte e tutti che lo usano (nel bene o nel male). Quindi è molto refrattario a qualsiasi ingerenza da fuori. Magari è meglio così.

  4. Licia:

    @John, ancora una volta grazie per i commenti sempre molto stimolanti. Riprenderò sicuramente queste domande, sperando di riuscire a coinvolgere qualche linguista. Per il momento, sulla definizione di anglicismo superfluo riporto quella di Giovanni Adamo e Valeria Della Valle citata in un vecchio post, L’invasione degli anglicismi (2012!). Fa parte di una tripartizione che preferisco alla distinzione tradizionale tra forestierismi di necessità e di lusso:

    forestierismi insostituibili, ormai radicati nell’uso, soprattutto per la loro concisione, efficacia espressiva e adeguatezza nominativa, come computer;

    forestierismi utili, che ripropongono espressioni straniere alle quali i parlanti sembrano adeguarsi senza sforzo eccessivo, facilitando l’uso di formule denominative di circolazione internazionale, come email per posta elettronica;

    forestierismi superflui, che si affiancano a espressioni italiane già in uso o facilmente ricavabili e sono mossi spesso dalla volontà di ostentare consuetudine con tendenze o conoscenze linguistiche straniere, come nel caso dell’inglese ticket, molto spesso abusato in luogo di ‘biglietto’ o ‘buono’.

    Ovviamente la distinzione non è sempre netta: quello che per me è un anglicismo utile per altri potrebbe essere insostituibile o al contrario superfluo!

    E per alcuni linguisti tutti i forestierismi sono in qualche modo motivati se osservati in chiave sociolinguistica. Tornerò su questo argomento riportando alcune considerazioni di Raffaella Bombi dal libro Interferenze linguistiche. Tra anglicismi e italianismi (2020).

  5. John Dunn:

    Grazie della tua risposta. Anch’io penso che tutti i forestierismi siano motivati in un modo o l’altro.

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