Storytelling: narrazione e affabulazione

Questa animazione, già citata in Storytelling, una parola di moda, descrive l’evoluzione di un’attività umana usata in tutte le epoche e in tutte le civiltà – storie raccontate per spiegare, motivare e creare coinvolgimento emotivo e senso di appartenenza – che nel nuovo millennio è stata reinterpretata e trasformata in uno strumento usato da organizzazioni e vari tipi di impresa, ad es. per il marketing, in politica e nella comunicazione pubblica.

In inglese si usa la stessa parola storytelling per due diversi concetti:
1 accezione “tradizionale”, prevalente nel lessico generico, di racconto di storie
2 accezione più recente, settoriale, che identifica una metodologia basata su dinamiche di influenzamento sociale.
Le differenze sono sintetizzate in questa tabella:

1 storytelling tradizionale: narrazione ordinata di una storia; è orale o scritto; intento: intrattenimento, con finalità pedagogiche, condivisione esperienza e valori comuni 2 storytelling in marketing e politica: costruzione di una storia appositamente selezionata; è transmediale; intento: creare identificazione, influenzare la percezione e adesione ai propri valori.

Un esempio dell’accezione 2 è la pubblicità Il buongiorno ha un nuovo nome di Nutella: una storia “vera” che crea identificazione e sfrutta le emozioni per coinvolgere e influenzare positivamente la percezione del prodotto. 

Storytelling e affabulazione

In italiano il concetto espresso da 1 è presente da secoli nella nostra cultura. Qualsiasi dizionario la identifica come narrazione, iperonimo di forme di racconto quali epopea, leggenda, favola, parabola, novella, epica e mito.

Per il concetto settoriale 2, più recente, è stato invece privilegiato l’anglicismo storytelling. C’è chi in alternativa usa marketing narrativo, scelta che trovo più convincente, anche se forse non del tutto adatta per campagne istituzionali o elettorali. Ultimamente in ambito commerciale si sta diffondendo anche il gioco di parole storyselling.

Peccato non sia stata presa in considerazione una parola che trovo perfetta, affabulazione, “procedimento con cui l’autore organizza il soggetto narrativo o scenico, in modo da svolgere nei confronti del lettore o dello spettatore un’opera di persuasione” [Devoto Oli].

Dubito che i professionisti del settore si considerino affabulatori, però penso che nel lessico comune, dal punto di vista di chi subisce pubblicità e storielle varie, affabulazione identificherebbe il concetto in modo efficace.

Storytelling e narrazione

Il concetto di storytelling è ormai uscito dagli ambiti specialistici ed è usato in più contesti, a volte anche a sproposito. Ho notato che sempre più spesso c’è chi chiama storytelling anche il racconto come intrattenimento e condivisione di conoscenza e valori comuni a una cultura (accezione 1) che però, come già visto, è un’attività descritta da secoli come narrazione, narrare, raccontare storie (improbabile che finora fosse rimasta senza nome!).

A complicare ulteriormente le cose, però, ultimamente la parola narrazione è usata anche come neologismo semantico per una forma di comunicazione nota in inglese come narrative. Nel nuovo post Narrativa, narrazione e storytelling ho approfondito alcune differenze concettuali e terminologiche.


Come classifichereste l’uso delle due accezioni di storytelling nel lessico comune italiano: anglicismi insostituibili, utili o superflui?


Aggiornamento – Nella puntata del 9 novembre 2014 di La lingua batte Giuseppe Antonelli ha fatto un’analisi etimologica e diacronica molto interessante della parola affabulazione (ed è citato anche questo post!). Si può ascoltare in podcast.

4 commenti su “Storytelling: narrazione e affabulazione”

  1. Mauro:

    Nel senso tradizionale, narrativo lo trovo superfluo, anzi addirittura fuorviante.
    Nel senso pubblicitario invece non è certo insostituibile, ma utile sì, decisamente.
    Saluti,
    Mauro.

  2. Marco:

    Affabulazione, come osservi giustamente, ha una connotazione negativa non presente in inglese, quindi non mi pare vada bene al 100%. In questo senso, sperando di venire smentito, al momento considero storytelling un anglicismo insostituibile.

  3. Barbara:

    Come dicevi giustamente nell’altro post, “storytelling” è una parola di moda, che fino a qualche anno fa non usava nessuno anche se le storie si sono sempre raccontate, anche nella pubblicità. Vorrei sapere come le chiamavano i “creativi” di 20 anni fa.

  4. Licia:

    Ho scoperto che oggi a Roma ci sarà un convegno intitolato Storytelling 2.0 (sullo storytelling digitale). La metafora storytelling 2.0 deriva direttamente dall’inglese e mi pare che l’aggettivo digitale implichi rinominare implicitamente l’accezione 1 (la narrazione “tradizionale”) in storytelling, operazione che non mi convince affatto, eppure sembra che ormai non si riesca più a parlare di storie, racconti e narrazione senza ricorrere all’anglicismo.

    Ho molto apprezzato l’intervento di Luisa Carrada, citato nell’altro post, anche perché entra nell’argomento senza usare la parola storytelling (se non per i riferimenti a quanto scritto da altri).

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