Altoparlanti intelligenti e “ricognizione vocale”

Da Il mito di Babele rivive in Lexifone, l’app israeliana che traduce in 8 lingue:

’’La nostra macchina interagisce con l’utente ascoltando ciò che dice e traducendo per chi ascolta grazie ad altoparlanti posizionati davanti e dietro per rendere comprensibile ciò che viene detto’’ insiste Itay Sagie. Il sistema – pensato per rendere più economiche le relazioni commerciali – si basa su una “ricognizione vocale” accresciuta con un meccanismo di traduzione chiamato in inglese “computational linguistics” (prende le frasi usate da chi parla e le traduce simultaneamente in un’altra lingua).

Gli errori dei media italiani non sono certo una novità, però mi pare che qui i problemi non siano solo di traduzione ma anche di conoscenze inadeguate e di incapacità di riconoscere affermazioni che non hanno molto senso.

A quanto pare chi scrive pensa che un altoparlante sia davvero in grado di “ascoltare” e “tradurre”, non ha mai sentito parlare di riconoscimento vocale, una funzionalità disponibile in molti smartphone e da anni integrata in molti programmi per PC, e non riesce a immaginare che esista la linguistica computazionale, tanto che mantiene il termine inglese ed equipara una disciplina scientifica a un “meccanismo di traduzione”.

Probabilmente non ha molta familiarità con la traduzione automatica, mai citata nel testo, e preferisce parlare di “traduzione simultanea”, che però in italiano di solito è sinonimo di interpretazione simultanea e quindi descrive un’attività umana.

Falsi amici

Anche il falso amico recognition <> ricognizione* sembra indicare una scarsa conoscenza del lessico italiano: ricognizione è un termine giuridico, militare o topografico che non ha molto senso in un contesto linguistico o informatico o nell’uso generico, dove l’inglese recognition equivale all’italiano riconoscimento (cfr. riconoscimento della scrittura).

Altro falso amico, narrative <> narrativa, in una frase che suggerisce che nel Medio Oriente il problema cruciale sia una questione di letteratura: Ma nella terra del conflitto dei conflitti, dove il nodo più ostico è l’inconciliabilità della narrativa israeliana e di quella palestinese, la comunicazione pesa, internamente e esternamente.

Software per telefono fisso?

Nel resto dell’articolo si notano parecchie altre inesattezze, anche tecniche, ad es. il riferimento iniziale è all’iPhone (scritto Iphone) ma poi l’app viene descritta come “un’applicazione per Android utilizzabile anche senza internet o dal telefono fisso”.

Domanda retorica: perché non fare qualche verifica se si scrive di un argomento che non si conosce? Sarebbero bastati cinque minuti su Wikipedia per risolvere tutti i dubbi.

E mi piacerebbe anche sapere cosa ne pensano i traduttori della prima parte di questa frase: Una lingua e la sua traduzione riguardano i suoni ma anche e soprattutto la cultura.
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* in inglese ricognizione in senso militare è reconnaissance (cfr. anche scouting).

9 commenti su “Altoparlanti intelligenti e “ricognizione vocale””

  1. Max:

    L’altro giorno di repubblica nell’articolo sulla tragedia del moby Prince si faceva riferimento ad una convenzione sul “marine pollution” tradotto ovviamente polluzione marina….

  2. Yupa:

    Be’, dài, come sottolinea Max c’è di peggio.
    Io ricordo ancora articoli di quotidiani in cui si parlava del “compasso magnetico” degli aerei, o dei problemi di chi è “morbidamente obeso”. 😀

  3. Alice:

    Sempre puntualissime le tue analisi. “Narrative” l’ho sentito usare poco tempo fa in un contesto psicologico, ma in quel caso in italiano è stata adottata la dicitura “narrativa” o, meglio, “l’approccio narrativo”, “psicologia narrativa” e via dicendo.

    Non saprei che pensare di quella frase, ma soprattutto del termine “suoni”. È vero che a volte è importante restituire gli effetti sonori come accenti, assonanze, rime, ma non penso che l’autore volesse arrivare a suggerire tanto.

    Ciò che trovo ironico è che comunque tra le lingue attualmente supportate dall’applicazione manchino ancora l’ebraico e l’arabo.

  4. Licia:

    Grazie a tutti per i commenti e gli esempi. 😀

    Sarò ingenua, ma davvero continuo a stupirmi che vengano pubblicati articoli che non stanno in piedi come questo, possibile che chi scrive per professione non ragioni sulla (mancanza di) logica delle proprie affermazioni e che nessuno nella redazione noti i problemi?

    @Alice, il dettaglio dell’assenza di ebraico ed arabo non l’avevo notato, significativo davvero! Forse temono i potenziali problemi? Mi ha fatto venire in mente un errore di traduzione con conseguenze disastrose letto la settimana scorsa in Johnson, il blog linguistico di The Economist. Iniziava così: Translation and interpretation in matters of diplomacy is tricky. Language enthusiasts particularly enjoy the story of the Treaty of Wuchale, signed between Ethiopia and Italy in 1889. The text didn’t read the same in Amharic and Italian. The former guaranteed Ethiopia’s king Menelik II a good measure of autonomy in conducting foreign affairs. The latter established an Italian protectorate with no flexibility. The culprit: one verb, forming a permissive clause in Amharic and a mandatory one in Italian. Six years later, the differing interpretations led to war. Ethiopia won.

    PS Però a pensarci bene morbidamente obeso una sua logica potrebbe anche averla, se paragonato a chi invece è tutto spigoli. 😉

  5. Alice:

    Bellissimo esempio, non lo conoscevo 🙂
    Ce ne sono tantissimi, ma un altro che non conoscevo è quello citato qui nei commenti: “Per esempio, il 7 dicembre 1941 l’ambasciatore giapponese a Washington, a causa di una incomprensione con la segretaria del presidente americano Roosevelt, fu lasciato per 8 ore nella sala d’aspetto. Alla settima ora di attesa, iniziò il bombardamento giapponese su Pearl Harbor (Hawaii), che ancora oggi molti americani definiscono ‘a sorpresa’. Mentre l’ambasciatore in realtà era già alla Casa Bianca per consegnare la dichiarazione di guerra dell’Impero Giapponese agli Stati Uniti d’America”. Si potrebbero riscrivere i libri di storia 🙂

  6. Luigi Muzii:

    Veramente, la storia dell’attacco a Pearl Harbor è un po’ diversa, e basterebbe un’occhiata a Wikipedia (http://goo.gl/sfSK), anche nella versione italiana, per scoprirlo. L’aneddoto narrato da tal Riigi Piirid, ovviamente senza riferire fonti, è in realtà una leggenda metropolitana, al pari di tante altre che si raccontano sulla traduzione.

  7. Luigi Muzii:

    Postilla al commento precedente: Wikipedia riporta la biografia dell’ambasciatore giapponese a Washington (http://goo.gl/0kaTs) Kichisaburō Nomura, che basterebbe leggiucchiare per rendersi conto che l’episodio narrato è quanto meno improbabile (v. http://goo.gl/CkPiO).
    Non meravigliamoci se altri commettono errori banali per pigrizia o supponenza intellettuale.

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