Metafore e terminologia informatica 1

Tech talk, un intervento apparso due giorni fa in Macmillan Dictionary Blog, afferma che la maggioranza dei termini informatici che in inglese descrivono nuove funzionalità e oggetti destinati ad avere una grande diffusione e visibilità non sono nuove parole ma nuovi significati attribuiti a parole esistenti. Sottolinea inoltre che le parole comuni associabili ad oggetti fisici, al corpo umano e alle sue azioni e i suoi sensi sono quelle preferite per designare concetti altrimenti non familiari.

Shell is an example of a word pattern that can be observed throughout the lexicon of computer technology and the Internet: the majority of words for new concepts, functions, and objects that get firmly established are not neologisms; they’re new senses of old words, and the words we like best for newfangled and unfamiliar things are well-known, familiar words that are not very far removed from physical objects, sense data, and our bodies.

Efficacia delle metafore

L’articolo sembra dare per scontato che questo uso metaforico della lingua sia sempre di comprensione immediata e che consenta di capire intuitivamente concetti nuovi e/o complessi, anche da parte di chi ha solo conoscenze elementari della lingua inglese, proprio perché vengono usate parole del lessico comune. Afferma inoltre, citando un noto redattore tecnico, che dal punto di vista dell’utente questo tipo di terminologia è trasparente a tal punto che non dovrebbe neanche richiedere definizioni.

Se i termini creati per terminologizzazione sono basati su metafore facilmente riconoscibili, concordo che risultano efficaci anche nel passaggio dall’ambito informatico al lessico comune: vengono riconosciuti come neologismi semantici e il nuovo significato può coesistere senza troppe interferenze con quelli standard già consolidati e condivisi da tutti i parlanti (esempi tipici: finestra, segnalibro, cartella, cestino…).

Analogie imperfette: la nebulosità di cloud

A volte, però, le analogie sono imperfette e le metafore non sono trasparenti, neanche per parlanti di madrelingua. In ambito informatico si trovano addirittura metafore casuali, come ribbon, e altri esempi di indeterminatezza (indeterminacy) che complicano ulteriormente la comprensione.

Un esempio tipico è quello di cloud (computing) il cui significato, come già visto, non risulta per nulla ovvio neppure agli americani. Il nome riflette infatti un concetto che in origine era decisamente vago, come spiega uno degli ideatori:

«In fact, the word “cloud” comes from the fact that many years ago those of us who built and sold client server applications, software and hardware used to draw a picture with the PC connected to a network and the network connected to a server. Since none of us actually understood how the network worked, we drew a cloud and labeled it “network” and left it at that

vignetta: geek&poke

Da L1 a L2

Un altro problema non considerato da Tech talk è la “trasferibilità” delle metafore da una lingua all’altra. Non sempre quello che funziona in inglese (L1) è altrettanto efficace o accettabile in un’altra lingua (L2) o in un’altra cultura. Come accennavo in Software e antropomorfismo, in italiano c’è la tendenza a non recepire alcuni tipi di metafore e preferire invece dei prestiti: è il processo subito da shell e kernel, i due termini descritti in dettaglio da Tech talk proprio come esempi di metafore ritenute intuitive in inglese.  

Altre considerazioni in Metafore e terminologia informatica 2.


Nuovi post con esempi di analogie imperfette nella terminologia informatica:
Tethering (metafora obsoleta)
Breadcrumb: briciole digitali (metafora poco accorta)
Boot, reboot e bootstrap (metafore poco trasparenti)
File, dall’ufficio al computer (ma non in italiano)


8 commenti su “Metafore e terminologia informatica 1”

  1. Luigi Muzii:

    In realtà, la questione andrebbe posta in modo diverso. Non ci sono solo nuovi significati attribuiti a parole esistenti, ci sono concetti esistenti riproposti con parole esistenti, ancorché usate con accezione nuova.
    Il caso di “cloud” è emblematico perché ripropone concetti ampiamente usati molto prima che riuscisse a imporsi per l’esito felice di operazioni commerciali. Già nel 1990 si usava rappresentare le reti con una nuvola nelle prime rudimentali presentazioni. Peraltro, i più vecchi ricorderanno il Net Computing di Sun, osteggiatissimo da Microsoft. Di Java, oggi non si parla più di piattaforma rivoluzionaria come fu presentata a suo tempo e la “virtualizzazione” delle applicazioni è cosa fatta, forse anche grazie al fatto che pochi ricordano i soloni che, anche solo vent’anni fa, sostenevano pubblicamente che i 57,6 bps fossero la soglia di tangenza pratica per la trasmissione dati.
    Anche “surveywall” è un nome nuovo studiato per rappresentare diversità in una soluzione già sperimentata, almeno ai tempi della prima bolla Internet.
    La verità è che la terminologia, intesa come disciplina, è destinata a inseguire, anche faticosamente, non potendosi permettere le lentezza della lessicologia (e della lessicografia). Di chi è la colpa? Ho un’opinione che esprimo da anni, ma forse non conta. Quel che conta è che ancora si assiste a errori come quello del pulsante Start che originò problemi di localizzazione e ironie come quella sul fatto che non esistesse nessun altro dispositivo che, una volta avviato, si dovesse spegnere avviandolo di nuovo (o qualcosa del genere).
    Per parafrasare Bogart, “That’s the marketing, baby. The marketing! And there’s nothing you can do about it. Nothing!”

  2. Marco:

    Grazie del post Licia, molto interessante l’osservazione di Timothy Chou sull’origine del termine “cloud”! Sapevo che ci si riferiva alla rete, ma non che il termine derivasse proprio dalla nuvoletta disegnata per rappresentarla.

    @Luigi – Della serie Curiosity killed the cat… Qual è l’opinione che esprimi da anni di cui parli nel tuo commento?

  3. Luigi Muzii:

    @Marco
    Il mio nome, con cui mi firmo, è facilmente rintracciabile in rete e, con esso, lo sono alcune (non tutte) del voluminoso materiale pubblicato in trent’anni di attività. Alcuni dei post pubblicati sul mio vecchio blog sono disponibili in un libro per Lulu (http://goo.gl/BSy6N).

  4. Marco:

    Scusa Licia se rispondo qui a Lugi.

    @Luigi:
    Grazie, ma a me interessava solo la tua opinione di cui parli nel tuo commento:
    “La verità è che la terminologia, intesa come disciplina, è destinata a inseguire, anche faticosamente, non potendosi permettere le lentezza della lessicologia (e della lessicografia). Di chi è la colpa? Ho un’opinione che esprimo da anni, ma forse non conta.”
    Non ti ho chiesto chi sei e quanto hai pubblicato nel corso della tua attività…

  5. Luigi Muzii:

    @Marco
    Quello che penso si può leggere nelle cose che ho scritto. Avrei preferito essere così esplicito e preferirei non esserlo oltre.
    Ad ogni modo, una risposta personale richiederebbe di conoscere qualcosa in più dell’interlocutore di un nome di battesimo.
    Se la mia opinione interessa davvero, forse merita un piccolo sforzo in più.

  6. Elio:

    mi hai incuriosito: prima tiri il sasso e poi nascondi il braccio…
    Come mai all’improvviso sei diventato così ritroso? Non mi sembra faccia parte del personaggio!

  7. Luigi Muzii:

    @Marco, @Elio
    Ci riprovo, magari questa volta ricevete entrambi la risposta che chiedete.
    Il tipo di risposta che sollecitate la trovate nelle cose che ho scritto; per una risposta diretta, preferisco sapere chi è la persona che me la chiede.

  8. N.N.:

    Luigi, hai provato a googlare il tuo nome per vedere la ricerca piu’ frequente?

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