Raspberry Pi, il modello Zero è “latte”

Raspberry Pi logo

Raspberry Pi è un microcomputer sviluppato nel Regno Unito come strumento economico per l’insegnamento della programmazione nelle scuole ma molto usato anche altrove.

Il nome Raspberry Pi è un esempio della tendenza “techfruit” di denominare software e hardware con nomi della frutta, in voga qualche anno fa e descritta in Apple, Blackberry & Orange. Pi fa invece riferimento al linguaggio di programmazione Python e si pronuncia “pai” come il pi greco in inglese (ma anche pie, la torta).

Zero… the latte computer!

Il modello meno costoso è il Raspberry Pi Zero e mi ha divertita scoprire che viene chiamato the latte computer da chi lo sviluppa. Il motivo? Costa circa $5 come un latte, che in inglese è una bevanda calda simile al caffelatte: basta rinunciare a berne uno per comprarsi il computer!

Raspberry Pi’s top tech award

Ho sentito la spiegazione in una brevissima intervista della BBC a Eben Upton, uno dei fondatori di Raspberry Pi, che usa anche un’altra “metafora liquida” molto comune in inglese: juice, la carica o la ricarica di un dispositivo elettronico.

Raspberry e latte ci ricordano che nomi e termini usati in informatica hanno spesso origini insolite e bizzarre: molti altri esempi in Netymology, parole del mondo digitale.

Programming vs coding 

Aggiungo che nell’intervista Upton descrive il Raspberry PI come un computer fornito di every tool that a child would need to go from knowing nothing about programming to being a professional software engineer.

RASPBERRY PI  – A small and affordable computer that you can use to learn programming

Il riferimento a programming è usato ripetutamente anche nel sito di Raspberry Pi. Mi ha fatto pensare alla decisione del Miur di introdurre questa attività anche nelle scuole italiane chiamandola però coding anziché programmazione e giustificando l’anglicismo con la mancanza di un equivalente italiano “sufficientemente comprensibile, ricco ed evocativo”. Ho descritto le mie perplessità su questa scelta in Aggiornamenti su coding.


In tema “terminologia informatica alimentare”, vedi anche:
♦  Dogfooding
♦  Android KitKat e altre leccornie digitali

PS I Raspberry Jam sono gli incontri di appassionati del microcomputer, cfr. i ritrovi dei musicisti delle jam session. E prima che qualcuno lo ricordi nei commenti aggiungo che raspberry, che si pronuncia senza “p”, vuole anche dire pernacchia.


3 commenti su “Raspberry Pi, il modello Zero è “latte””

  1. Ionti:

    Mi ha sempre incuriosito il motivo per cui la pernacchia è Raspberry. Su etymonline ho scoperto che deriva dal rhyming slang di “Raspberry tart” per “fart”.
    Che tu sappia, è un sito affidabile per le etimologie?

  2. Nautilus:

    Questo post rimanda a molti altri articoli, interni ed esterni al blog, che non ho avuto tempo di consultare (sono alla vigilia del mio consueto trasferimento estivo in Lituania con un sacco di lavoro da sbrigare).

    Due le considerazioni che vorrei fare.

    Innanzitutto sono anch’io un programmatore. Possibile che altri, qui e altrove, abbiano già detto quello che sto per dire. Dal mio punto di vista il coding è solo una parte, cioè un segmento (tra l’altro di basso livello), della più generale attività di programming. Scrivere codice è solo una delle attività della programmazione così come suonare una parte strumentale è solo una delle fasi della composizione di un brano musicale.

    Due o tre anni fa sono usciti molti articoli che annunciavano la decisione (all’epoca pionieristica) dell’Estonia di introdurre la programmazione come materia di studio alle scuole elementari (si chiamano ancora così?). In quell’occasione mi aveva colpito l’elevata frequenza del termine coding. Se fate una ricerca in Google usando la stringa “estonia +coding +primary +school” troverete 74 occorrenze contro le 84 fornite dalla stringa “estonia +programming +primary +school” (in alcuni articoli compaiono ovviamente entrambi i vocaboli). Si tratta di siti molto autorevoli, come la BBC, Forbes, Wired e persino il New York Times.

  3. John Dunn:

    Non conosco il sito etymonline, ma altri fonti affidabili (Jonathon Green, The Cassells Dictionary of Slang; Eric Partridge, A Dictionary of Historical Slang) confermano questa derivazione.

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