Costi e benefici del lavoro terminologico

Chi si occupa di gestione della terminologia in ambito aziendale potrà trovare interessante Cost and effectiveness of terminology work, un articolo che riassume i risultati di uno studio condotto da tekom su un campione di 940 soci distribuiti tra industria (67%), produttori di software (15%) e fornitori di servizi di traduzione o documentazione tecnica (5%).

L’articolo sottolinea una questione nota: i vantaggi dei sistemi di gestione della terminologia sono ben chiari a chi ne fa uso ma non altrettanto ovvi a chi deve finanziarli, in particolare perché è complesso quantificare il ROI (“ritorno sull’investimento”). 

In un intervento al Seminario COM&TEC La comunicazione multilingue di qualche mese fa avevo sintetizzato i principali benefici e punti deboli della gestione della terminologia nelle aziende in questi punti:

Benefici di un sistema di gestione della terminologia sulla comunicazione aziendale interna ed esterna: condivisione delle conoscenze, standardizzazione, semplificazione, riduzione delle ambiguità, migliore esperienza utente, traduzione più accurata.

Un sistema di gestione della terminologia consente di ridurre i costi di ricerca, supporto, prevenzione di problemi (anche legali), traduzione, correzione degli errori, automazione.

L’implementazione di un sistema di gestione della terminologia può essere complicato dai costi del sistema (di hardware, software, sviluppo, integrazione e manutenzione) e delle risorse umane coinvolte (personale specializzato e formazione degli utenti del sistema). È tuttora difficile quantificare la redditività del capitale investito in terminologia: la maggior parte delle analisi si basa su dati molto empirici, come il costo dei potenziali errori e interventi di supporto evitati, ecc.

Non ricordo dove e da chi ho sentito dire “Managers don’t understand terminology”, ma è una citazione che fa sempre annuire chi, in questo ambito, si deve confrontare con persone sicuramente molto competenti in ambito gestionale e finanziario ma poco avvezze ad apprezzare problematiche linguistiche e di condivisione della conoscenza…

Vedi anche: altri post con tag lavoro terminologico e/o database terminologici.

….

6 commenti su “Costi e benefici del lavoro terminologico”

  1. Luigi Muzii:

    Peccato che il campione non sia qualitativamente significativo, visto che si presume che i soci tekom siano maggiormente sensibili. Sono anni che chiedo ai colleghi che sproloquiano, rigorosamente tra loro, dell’importanza della terminologia di indicare i criteri e le metriche per il calcolo del ROI. La terminologia (v. il capitolo al riguardo nel mio ormai vetusto libro) costa, e tanto. Un’azienda vuole sapere quali benefici concreti ne trarrà, dove e come quantificarli. È vero che i manager non capiscono, ma i terminologi e i linguisti più in generale non fanno granché per aiutarli e preferiscono parlarsi addosso.
    Quando affrontai il problema per l’azienda per cui lavoravo nel periodo in cui scrissi il mio libro, mi resi conto che non avevo i mezzi per soddisfare certe richieste e rispondere a domande solo apparentemente banali, ma cruciali.
    L’unico che fu in grado di darmi qualche indicazione in base alle quali sviluppai un grafico un po’ rozzo ma efficace fu un accademico ginevrino che avrebbe invece potuto perfino evitare di rispondermi, come fecero tanti tromboni in Austria, Germania e Italia.
    Era, credo, il 1991 e non mi pare che le cose siano migliorate, qui da noi, anzi, a dispetto delle grida di aiuto che ogni tanto si levano e cui risponde il/la cattedratico/a di turno in cerca di visibilità (!) che non farà assolutamente niente come i predecessori.

  2. Licia:

    @ Luigi Muzii:
    se non l’ha già letto, le consiglio Cost-benefit Analysis of the Introduction and Implementation of a Terminology Management System di Annelise Grinsted e Hanne Erdmann Thomsen, un’analisi molto accurata dei vari modelli disponibili per calcolare il ROI della gestione della terminologia, con nutrita bibliografia.

    Sui sondaggi, credo sarà d’accordo che l’affidabilità non dipende dal numero di persone intervistate ma dai criteri di selezione del campione. Ha già avuto modo di visionare lo studio pubblicato da tekom e analizzare la metodologia usata?

  3. Luigi Muzii:

    Quando scrivevo “qualitativamente significativo” mi riferivo proprio ai criteri di selezione del campione.
    Ho letto la pubblicazione della Grinsted, ma si tratta di un lavoro accademico di stampo molto tradizionale che non aggiunge granché in termini di utilità pratica e sarebbe del tutto improponibile a un manager che si volesse convincere dell’utilità di un sistema di gestione della terminologia. Direi, anzi, che è proprio il tipo di studi che giustificano le mie affermazioni, proprio a partire dalla bibliografia.
    Lo studio di Klaus Dirk-Schmitz non è ancora disponibile: mi riprometto di leggerlo appena lo sarà.

  4. Licia:

    @Luigi Muzii:

    In effetti va fatta una precisazione: la versione dell’articolo pubblicata negli atti di TKE 2008 è una versione preliminare che precede di parecchi mesi l’intervento al convegno, durante il quale erano stati aggiunti ulteriori dati e modelli. Avevo assistito alla presentazione e posso assicurarle che c’era stato un notevole interesse dei partecipanti, anche da parte dei numerosi non accademici presenti (ad es. da Oracle, IBM, SAP, WTO, ecc.). Recentemente ho avuto conferma che Annelise Grinsted sta lavorando a una versione aggiornata del suo lavoro, che dovrebbe includere anche dei case study.

    Sulla validità, anche metodologica, dello studio di tekom (Daniela Straub e Klaus-Dirk Schmitz), direi di rimandare ulteriori commenti dopo la sua effettiva lettura.

    Nel frattempo, ne approfitto per chiederle se, in aggiunta alle critiche a quanto pubblicato da altri, il suo libro contiene proposte specifiche ed esempi di “vita reale” e se ha previso un aggiornamento? Le esperienze a cui accenna sarebbero benvenute da chi ora trova difficile conciliare indicazioni accademiche ed esigenze pratiche.

  5. Luigi Muzii:

    Lavoro da parecchio a un nuovo libro, che dovrebbe nascere come raccolta e rielaborazione degli articoli pubblicati sul blog. Purtroppo, in Italia, e non solo, è invalsa da anni, ormai, l’abitudine degli editori di chiedere soldi agli autori per pubblicarli, ovvero garanzie di vendita attraverso i “canali” accademici. È una pratica alla quale cerco di sottrarmi forse anche perché, a suo tempo, il mio editore non mi chiese una lira e con il mio libro non dovette fare un grande investimento, anche se indubbiamente aveva bisogno di un titolo del genere per il catalogo.
    La stessa pratica comincia a farsi smaccatamente strada anche tra gli editori di riviste e gli organizzatori di eventi che chiedono sempre più di frequente la copertura di uno sponsor per pubblicare articoli o ospitare interventi e, francamente, il circuito accademico non mi interessa, anche per non entrare in uno spesso stomachevole giro di scambi.
    Attualmente sto preparando un intervento per il convegno IALB-Tradulex che si terrà in ottobre a Lisbona e mi dedico ai miei studenti: non ho l’ambizione pedagogica di Rousseau né l’appeal accademico di alcuni scaltri personaggi nostrani e non solo e mi accontento.
    Se la Grinsted produrrà qualche caso studio non limitato ai confini locali sarò felice di esaminarlo e spero ardentemente di averne l’opportunità. Quanto all’indagine di Klaus-Dirk Schmitz non posso che concordare e mi auguro che vada oltre le premesse diffuse attraverso la newsletter tekom: ho di lui un buon ricordo dovuto alla collaborazione a un numero speciale del Traduttore (la defunta, credo, rivista dell’AITI) dedicato alla terminologia.

I commenti sono chiusi.